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Troppe cose non erano chiare a tutti..

Luogo: Marche, cantiere per la realizzazione della “terza corsia” dell’autostrada costiera.

Data: 2011.

Comparto produttivo: edilizia stradale.

Esito: Darshit, “operaio manovale” di 40 anni, ha riportato la frattura di una vertebra dorsale con esiti permanenti (è andata molto bene così…).

Dove è avvenuto: area aperta sottostante un viadotto autostradale, in zona di campagna; l’area dei lavori era estremamente fangosa a motivo del funzionamento di un “impianto fango” che preparava la “boiacca” (impasto di acqua e argilla) necessaria a garantire lo scorrimento dei micropali entro i fori nel terreno. 

Cosa si stava facendo: Darshit e altri due operai, Riccardo e Paolo, lavoravano alla realizzazione di micropali, costituiti da spezzoni di tubolare metallico con le estremità filettate, che venivano avvitati l’uno sull’altro e progressivamente infissi nel terreno, per essere poi inclusi nei pilastri in cemento a sostegno della nuova corsia autostradale. Riccardo svolgeva mansioni di manovalanza sovrapponibili a quelle di Darshit, Paolo azionava la macchina perforatrice / palificatrice (noleggiata “a freddo” dall’impresa incaricata dell’opera) per trascinare e sollevare uno spezzone della lunghezza di sei metri, così da portarlo in posizione verticale per l’avvitamento su di uno spezzone già infisso nel terreno.

Descrizione infortunio: una quarta persona (Mirko), pur non avendo titolo per supervisionare le operazioni e nemmeno per trovarsi nella zona dei lavori (in quanto dipendente dell’impresa noleggiatrice della macchina), dava ordini operativi ed è probabile che intervenisse anche personalmente in alcune operazioni di lavoro, tra cui l’aggancio degli spezzoni alla macchina perforatrice / palificatrice. L’aggancio avveniva tramite una “testina di sollevamento” filettata, autocostruita dall’impresa incaricata dell’opera. Darshit e Riccardo preparavano gli spezzoni, pulendoli dal fango con una spazzola metallica. Mirko diceva a Paolo (che dalla posizione in cui si trovava non poteva vedere quella di Darshit) di iniziare a movimentare uno spezzone già agganciato e gridava a Darshit di accompagnare lo spezzone medesimo (a questo punto Riccardo si allontanava). Improvvisamente lo spezzone si sganciava e cadeva, urtando contro una parte del macchinario e rimbalzando “a leva” sotto le gambe di Darshit, che veniva sollevato e catapultato a un paio di metri di distanza.       

Raccomandazioni: l’infortunio avrebbe potuto essere evitato attuando una o più misure tecniche e/o organizzative.

  • La “testina di sollevamento” avrebbe dovuto essere “marcata CE”, essere accompagnata da istruzioni d’uso e garantire un efficace accoppiamento ai pali per caratteristiche costruttive, assenza di usura della filettatura e assenza di fango sulla filettatura medesima.
  • La macchina perforatrice / palificatrice avrebbe potuto essere corredata da un caricatore automatico, eliminando a priori la necessità di un intervento umano nelle immediate vicinanze degli spezzoni durante la movimentazione.
  • La macchina perforatrice / palificatrice, essendo stata noleggiata “a freddo”, avrebbe dovuto essere gestita interamente dall’impresa utilizzatrice, senza consentire interferenze da parte di imprese esterne e di personale estraneo; chiaramente, l’impresa utilizzatrice sarebbe stata tenuta a rispettare puntualmente il dettato del manuale di istruzioni della macchina e ad applicare procedure ad hoc per lavorare in sicurezza, dandone riscontro nel Piano Operativo di Sicurezza (POS). 
  • Tutti gli operatori della squadra avrebbero dovuto essere formati, addestrati ed esperti rispetto alle specificità del lavoro da svolgere. Invece né Darshit né gli altri avevano ricevuto formazione e addestramento sostanziali, nessuno di loro aveva maturato alcuna esperienza specifica, tutti erano dipendenti di una società di lavoro interinale, tutti lavoravano da poco tempo nei cantieri autostradali. “Paolo aveva imparato ad utilizzare il macchinario da un altro operatore che si era licenziato da circa una settimana”. Darshit non aveva la minima padronanza della lingua italiana, lui in particolare non aveva modo di poter essere formato e addestrato in modo efficace, nemmeno era in grado di comunicare adeguatamente con i colleghi durante il lavoro ed era esposto a mal interpretare le indicazioni ricevute, magari trovandosi a rispondere “sì” e “capito” anche quando la comprensione non era stata affatto adeguata. Far lavorare una squadra composta unicamente da lavoratori che solo da poco si trovano assieme e che solo da poco svolgono le operazioni a cui sono addetti è sicuramente un azzardo. Il ricorso al lavoro somministrato non è da stigmatizzare a priori, ma esso avrebbe dovuto essere integrato nell’organizzazione aziendale: il lavoratore interinale inserito in una squadra di lavoro consolidata e “che funziona” può apprendere anche attraverso il cosiddetto “buon esempio”. Conoscere bene le persone con cui si lavora (oltre che il lavoro che viene svolto) limita anche l’impatto negativo di situazioni di “disturbo esterno”, ad esempio i tentativi di interferenza da parte di estranei che possono confondere e aumentare i rischi: e nemmeno Mirko, estraneo all’organizzazione dell’impresa esecutrice, conosceva le reali competenze dei lavoratori a cui diceva cosa fare…
  • La postazione dell’operatore di macchina avrebbe dovuto garantire piena visibilità di tutta l’area di aggancio e movimentazione degli spezzoni ovvero, qualora ciò non fosse stato materialmente possibile, si sarebbe dovuto provvedere a dotare la macchina di dispositivi di comando a distanza, così che l’operatore avrebbe potuto posizionarsi in un punto con adeguata visuale.
  • In ogni caso, si sarebbe dovuto evitare che nella zona in cui si stavano movimentando gli spezzoni vi fosse presenza di lavoratori (men che meno Darshit avrebbe dovuto accompagnare lo spezzone durante la traslazione).
  • Tutto quanto sopra si è inserito in uno scenario di grave confusione organizzativa “sul campo”, pur a fronte di un Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC), un POS, un manuale d’uso e manutenzione della macchina perforatrice / palificatrice e in generale di una documentazione prevenzionistica formalmente appropriati. La catena delle responsabilità e i canali di comunicazione non funzionavano: “troppe cose non erano chiare a tutti”. Mirko dava ordini che non avrebbe potuto dare, ma è anche vero che i lavoratori della squadra evidentemente si trovavano nella condizione psicologica di obbedire ad ordini a cui non avrebbero dovuto obbedire. Chi manovrava la macchina era privo delle competenze necessarie a garantire che il lavoro si svolgesse in modo tecnicamente corretto e orientato alla sicurezza; egli inoltre non aveva alcun ruolo gerarchico formalmente affidato o anche solo informalmente riconosciuto dai colleghi (per tali motivi, durante l’inchiesta, non lo si è identificato come preposto, anche solo “di fatto”: quando le relazioni interne alla squadra sono definite per mera consuetudine vengono a saltare i presupposti per l’individuazione di posizioni di garanzia effettive, note a tutti, da tutti riconosciute). Nei cantieri grandi e complessi ove più lavorazioni vengono svolte in contemporanea in punti diversi e distanti tra loro, come quello di cui trattasi che si sviluppava lungo molti chilometri di un tratto autostradale, chi è incaricato del coordinamento delle funzioni di prevenzione non può essere sempre presente nei momenti e nei punti critici: quindi è indispensabile che sia chiaramente definita una rete di preposti veri e propri e che tutti conoscano esattamente i ruoli e i compiti delle diverse figure nonché la catena di comando aziendale e di cantiere. In ogni articolazione del cantiere va garantita la presenza costante di una persona adeguatamente formata e dotata dell’esperienza e dell’autorevolezza necessarie per poter svolgere a pieno titolo il ruolo di preposto. E tutti devono avere le idee chiare, devono poter comunicare, poter capire e poter farsi capire.

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